Mio caro Kawabata, Rashid Daif
Mio caro Kawabata, Rashid Daif
“Il dolore, caro Kawabata, ti
agevola la morte, trasformandola in un bisogno urgente, in un sogno. A chi dico
queste cose? A te! Se dovessi accorgermi, caro Kawabata, che già sai quello che
ti sto dicendo, mi fermerei subito. Ma non posso riconoscerlo dal momento che
mi sto servendo proprio di te contro i miei conterranei”. Mio caro Kawabata è un’epistola indirizzata allo scrittore
giapponese Kawabata Yasunari, premio nobel, suicida nel 1972. Le ragioni che
hanno spinto Rashid Daif (Ehden, Libano, 1945) a scegliere proprio questo
letterato come destinatario della lettera sono rintracciabili sia da un punto
di vista prettamente letterario (ciò che ha suggerito la lettura dell’opera Il Maestro di Go), sia da un punto di
vista storico – esistenzialista (che è, poi, il risultato della dotta lettura).
Il romanzo è espressione della transitorietà della storia, “una bestia, un
tiranno” da odiare “quanto il nulla, l’assenza di significato”, ovvero, la
manifestazione dell’impossibilità razionale di capire la realtà. Lo
scombussolamento dell’uomo della metà del XX sec. dinanzi al work in progress
storico è espresso attraverso una segmentazione del tempo secondo cui “Il
passato, caro Kawabata, procede tanto verso il presente quanto verso il futuro;
il presente è il futuro e il passato allo stesso tempo. Il futuro allora è roba
da profezia, e io non ho proprio niente a che vedere con le profezie”. Di
fatto, lo scrittore libanese, rivolgendosi a un collega giapponese, vuole
“parlare a partire da eventi normali, dello scontro tra i tempi moderni – cioè
la modernità provocatoria e minacciosa -
e quelli antichi, cioè la tradizione”; come lui, è uno scrittore
orientale, ma di certo Daif nutre ancora quella speranza che, seppure esigua,
non gli prefigura mai l’immagine della morte eterna. Dallo scompenso dovuto
alla transitorietà storica derivano incongruenze come il post scriptum che
suggella il romanzo (“Spero che troverai tempo per rispondermi”) e appelli del
tipo “Non puoi sapere quello che sto per raccontarti, perché è successo dopo la
tua morte. Sta’ a sentire”. Questa è, dunque, la visione laica e relativista
della realtà emergente dal romanzo autobiografico di Daif che parte dalla
descrizione dell’infanzia e degli anni adolescenziali passati in famiglia
presso un villaggio libanese di montagna per giungere alla militanza comunista
durante l’università. Il linguaggio è descrittivo e travolgente, liberando i
luoghi, i personaggi e i pensieri con fare narrativo estremamente naturale e
spontaneo, libero da orpelli stilistici classici e ridondanti. Così, nella
prima parte del libro, Daif racconta gli anni ’50 e ’60 passati in un contesto
sociale dove Gagarin e lo studio scolastico delle teorie galileiane, rivisitate
anche in chiave drammatica (il “compagno” Brecht) costituiscono un punto di
scontro tra la miope tradizione e la modernità a cui si affacciano dei
giovanissimi studenti. Trasferitosi nel cuore degli anni ‘60 a Beirut per
continuare gli studi, Daif milita nel partito di ispirazione marxista sognando
la costituzione di uno stato comunista con lo spirito arabo: seppur cristiano
maronita e, pertanto, geneticamente schierabile con l’ala falangista anti –
Palestina e Islam, Daif affianca la fazione islamica, cambiando all’occorrenza
pure il nome, e lottando per il popolo palestinese. La seconda parte del
romanzo, figlia della prima per ideologia, si muove dal consolidamento di una
visione atea progressista razionale e marxista che, man mano, si dilegua
lasciando un forte dubbio esistenzialista; quel mondo solidamente definito da
leggi obiettivamente date viene meno con la guerra, la disperazione, la paura e
le bombe lasciando nell’intellettuale solo macerie e l’incomprensione della
realtà. Il giallo dei limoni di montaliana memoria. Anarchia nei confronti di
cui l’intellettuale si sente inerme. Scrivere è l’unica soluzione, è la ragione
per cui vale vivere. Ecco perchè il racconto si snoda con uno smaliziato senso
di rievocazione (“La mia memoria è il mio sostegno più forte, un supporto al
riparo dal dubbio”) in cui si staglia il Libano con le sue sofferenze
unitamente a quelle del resto del Medioriente (“Prima di proseguire in questa
mia fatica, permettimi di dirti in confidenza che il Libano è uno di quei paesi
che non fanno altro che allestire periodicamente delle tragedie. È uno di quei
paesi che si possono paragonare alla vegetazione che spunta sulle superfici
sabbiose, sono piante belle e crescono in fretta, ma poi si bruciano al calore
dei primi raggi del sole”), ma liberando sempre – e con orgoglio – l’amore
verso la propria arabicità e la consapevolezza di un destino avverso (“Noi
arabi troviamo naturale evocare le nostre [pene], perché siamo popoli
sopraffatti e umiliati dal tempo, che ci ha defraudati della dignità e dei
valori più sacri”). A tratti cinico, sarcastico di sicuro, di brillante acume
intellettuale, Mio caro Kawabata,
pubblicato nel 1995, è un libro speciale perché racconta con uno stile
narrativo semplice e disincantato,
ovvero lucido e pieno di umanità,
il percorso di un’intera generazione segnata dalla guerra, dalle sconfitte
ideologiche, dall’appannaggio dell’identità nel riflesso della tradizione. “Le
parole, quando vogliono, possono portarci lontano, e alla stessa maniera noi
possiamo condurle dove vogliamo, ma non siamo i soli a comportarci così, dal
momento che anche il veleno – la storia – va avanti a stento”: Rashid Daif
coniuga la realtà storica con una prosa geniale per consegnare al lettore un
ritratto critico del Libano. Trop Beau.
Traduzione e introduzione di I. Camera d'Afflitto,
Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp. 140.